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DanubeVIDEOARTfestival allo Stadtkino di Grein (Austria)

Calogero Pirrera | 31/07/2013

La seconda edizione del DanubeVIDEOARTfestival si terrà nel mese di ottobre allo Stadtkino di Grein (Austria).

Fino al 31 agosto 2013 è possibile partecipare con opere di video-arte (a tema libero) della durata massima di 10 minuti prodotte a partire dal 2011.

Il festival, organizzato dall’artista visivo Roland Wegerer, assegnerà un premio in denaro.

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Austria, Calogero Pirrera, DanubeVIDEOARTfestival, FestArte Video Art Festival, Grein, Italia, Roland Wegerer, roma, Stadtkino, video arte

SALVATORE INSANA | Quattro domande

Redazione videoPILLS | 24/07/2013

de il7 – Marco Settembre

Nel percorso verso la realizzazione dell’opera, quanto ti sono utili le riflessioni di Gene Youngblood e di Gillez Deleuze e quanto invece pesa l’occasionalità dello spunto, il confronto con l’esperienza del reale?
Nelle mie ricerche video-artistiche spesso parto da un frammento di “reale”, da un materiale che attrae il mio sguardo per la sua ambiguità, per la sua inafferrabilità, per il suo lirismo nascosto: un travaglio mentale che parte dalla retina e passa a livello neuronale. Il discorso teoretico-critico viene sempre appena dopo e poi si fa anche abbastanza analitico, con la consapevolezza di agire sempre in aperta polemica con il presente (delle immagini, dell’immaginario, dei media – quello insomma con il quale entro più spesso in conflitto o in dialogo). E qui si fa spazio tanto il cinema espanso di Youngblood quanto l’immagine-tempo e il ripiegarsi della materia su sé stessa di Deleuze, entrambi ormai parte integrante della mia visione…

Ti pongo una domanda provocatoria: come si concilia l’antiautoritarismo con cui proponi immagini slegate da una logica preconfezionata e l’ambizione con cui tendi a rappresentare l’audelà?
L’audelà è ovviamente irrappresentabile, verrebbe da dire per fortuna. Non c’è ambizione ma solo tensione ideale ad andare oltre gli schemi e i linguaggi narrativi e interpretativi più convenzionali e privi di “illuminazioni”. Il tentativo è di superare soprattutto quella logica che soppianta l’interesse verso la forma attraverso un’attenzione e una cura spasmodica verso il contenuto.

Nel tuo blog si legge: “Sam ama chi prova a lanciarsi dentro un cerchio infuocato e non ci riesce”. Che rapporto imposti tra i testi tuoi o altrui e la tua ricerca filmico-teatrale? È un lavoro di adattamento o il riconoscimento di un disadattamento reci-proco tra codici diversi?
Non ci adatta mai, non lo si dovrebbe mai fare. Giudicarsi adatti potrebbe essere il principio della fine. La calma piatta della ricerca. I testi vengono disadattati semmai, rivisitati e traditi per onorarli, per glorificarne la loro vitalità. Niente istruzioni prescritte da altri. Quel che leggo si mescola, si scontra, si incontra con quel che scrivo. Poi prevale di solito la sovrascrittura, la moltiplicazione dei linguaggi, la sovrimpressione stratificata di suggestioni. Ancora sono nella fase di raccolta degli stimoli.
Quali sono gli autori (testuali e filmici) che più ti hanno influenzato e qual’è vice-versa, il segno che afferma la tua riconoscibilità?
I punti di ri-ferimento (prendendo il termine anche alla lettera…) sono tanti e centrifughi. In principio fu Ejzenstein e lo stimolo a trattare la materia visiva con l’estrema attenzione compositiva dell’analista che ha a cuore l’estasi. Poi arrivò John Cage, il suo rivoluzionario anti-autoritarismo, la lotta an-archica contro il pre-stabilito. La furia ostinata di Roberto Nanni. La visionarietà di Bokanowski. Il baratro visivo di Lynch. L’aldilà di Giorgio Manganelli. Carmelo Bene. L’eccentricità lirico-scientifica di Gianni Toti. L’esattezza leggera di Luigi Ghirri.
Come atteggiamento nei confronti del mondo invece, prevale la deriva iper-urbana, il conflitto insanabile, insaziabile con la società, quello di Debord, ma anche quello di Buster Keaton.

Per quanto riguarda l’auto-analisi ancora non penso di ri-conoscermi a sufficienza. Mi interessano i corpi in movimento nella loro inafferrabilità, nel loro metamorfico e tragico sfuggirci. Mi interessa indagare più a fondo sui limiti della visione, sugli “spettri visivi”. Gli inganni della luce, la sua ambiguità. E poi andare oltre lo specifico del digitale, che è ri-manipolazione del reale, realtà tanto aumentata da risultare infinitamente mistificata. La mia è innanzitutto una polemica contro “l’alta definizione”. Citando Jean Luc Godard: <<Si parla di alta definizione come se dire Definizione non fosse sufficiente. (…) La macchina da presa non è una certezza, è un dubbio>>.

 de il7 – Marco Settembre

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25th ONION CITY EXPERIMENTAL FILM AND VIDEO FESTIVAL di Chicago (USA)

Calogero Pirrera | 05/07/2013

La venticinquesima edizione dell’ ONION CITY EXPERIMENTAL FILM AND VIDEO FESTIVAL di Chicago quest’anno si terrà dal 5 al 8 settembre 2013 e sarà possibile parteciparvi fino al 19 luglio.

Il festival, fondato nel 1980 dall’ Experimental Film Coalition e curato da Chicago Filmmakers dal 2001, accetta lavori video da tutto il mondo prodotti a partire dal 2010.

Una giuria di esperti assegnerà dei premi in denaro.

 

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C’è una piccola radice che, se la masticate, vi spuntano le ali immediatamente, MAC- Lissone

Manuela Contino | 04/07/2013
 C’è una piccola radice che, se la masticate, vi spuntano le ali immediatamente
Selezione video dall’archivio Art Hub, a cura di Cecilia Guida
dal 4 al 28 luglio 2013
MAC – Museo d’Arte Contemporanea di Lissone
Dopo il MACRO di Roma, arthub.it esce, ancora una volta, dallo spazio della rete e viene presentato all’interno della video room del Museo d’Arte Contemporanea di Lissone con una selezione di video d’artista che cambiano ogni settimana per quattro settimane, per dare visibilità alla quantità e varietà dei lavori degli artisti presenti nell’archivio online.
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MAYA DEREN | At land | 1944 | 14′ 53″

Redazione videoPILLS | 04/07/2013

de il7 – Marco Settembre 

PARTE I

PARTE II

Maya Deren (Kiev, 1917 – New York, 1961) alias Eleanora Derenkovskaja, russa di origine ebraica nata poco prima della Rivoluzione d’Ottobre, emigrò con la famiglia negli Stati Uniti. Era stata battezzata col nome di Eleanora in onore della “divina” Duse, ma dopo l’anglicizzazione del cognome in Deren l’artista cambiò anche il nome in Maya, per riflettere il rapporto illusionistico indagato da Shopenhauer tra realtà e rappresentazione, ma anche alludere all’omonima dea indiana e alla madre del Buddha. Questo accadde dopo gli studi di scienze politiche, la laurea in Letteratura inglese e poesia simbolista, l’infatuazione per la danza con il relativo tour con la Katherine Dunham Dance Company, e l’inconro con il filmaker cecoslovacco Alexander Hammid a Los Angeles, con cui produsse il capolavoro Meshes of the afternoon. Il senso di sradicamento tipico degli immigrati, la ben assimilata “lezione” surreal-simbolista di Bunuel e Cocteau, i significati psicanalitici dovuti anche all’influenza del padre psichiatra, e la successiva fascinazione per lil Buddhismo e l’antropologia confluirono in un profilo di artista proto-femminista che realizzò “psicodrammi poetici” in cui lei stessa spesso è protagonista, ma in cui l’identità, la logica spazio-temporale, le convenzioni borghesi, le culture esotiche, grazie ad un montaggio tanto onirico quanto rit-mico, sottoponevano a uno spaesamento trascendente le convenzioni del realismo hollywoodiano. Collaborò con la scrittrice Anaïs Nin e l’artista Marcel Duchamp, e conobbe anche il compositore John Cage e l’antropologo Gregory Bateson. Nel 1986 è stato istituito il Maya Deren Award come incentivo e riconoscimento per il lavoro di filmakers contemporanei.

“At land” è il suo secondo film, realizzato nel 1944, sempre in 16mm. L’uso delle immagini è poetico, rifiuta una narrativa univoca e razionale; libera piuttosto le capacità simboliche e associative, crea suggestioni col flusso di energia creativa. Spazi anacronistici ed eterogenei sono collegati, nell’abile montaggio, dall’azione della protagonista, portata su una spiaggia da onde che – compiuta tale missione – sembrano ritirarsi. La ricerca meta-dimensionale della inquieta donna sembra essere un viaggio extracorporeo, che tuttavia non esclude la fisicità dell’arrampicata sul tronco di legno, la quale sfocia magicamente sul lungo tavolo su cui si svolge una cena, e su cui di nuovo faticosamente la Deren avanza strisciando tra l’indifferenza dei com-mensali, simbolo delle formali miopie borghesi. La partita a scacchi è una chiara citazione di Man Ray, ma la ricerca del pedone ruzzolato sul tronco, e poi tra le rocce in cui scorre il fiume fino alle cascate è il portato, pur espresso con grazia femminile, di un’ansia e di una instabilità legate al latente statuto ontologico delle cose, ma forse anche alla lotta solitaria che ogni artista compie nel cercare di dar corpo e senso alla propria visione. Al culmine di un percorso erratico, la Deren con astuzia recupera il pedone e si allontana lungo la spiaggia da cui era partita, lasciandosi dietro le altre sè stesse.

 

il7 – Marco Settembre

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