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STEINA E WOODY VASULKA | Noisefields | 1974 | 11′ 17″

Redazione videoPILLS | 23/10/2013

de il7 – Marco Settembre

Steina e Woody Vasulka (nata a Reykjavik, 1940; nato a Brno nel 1937) si sono formati rispettivamente come violinista classica e come ingegnere specializzato in produzione cinetelevisiva diplomato all’Acca-demia delle Arti dello Spettacolo e si sono incontrati nei primi anni ’60. Trasferitisi a New York nel 1965, sono stati tra i pionieri della videoarte, fondando lo studio The kitchen, nel 1971. Dopo l’arrivo in USA Woody firmò documentari indipendenti e curato diversi film industriali. Nel 1968 Woody condusse i suoi primi esperimenti con immagini realizzate grazie a dispositivi elettronici, accantonando la forma cinematografica in favore del video. Accusati fino a metà dei ‘70’s di trascurare l’aspetto sociale del mezzo, i Vasulka si sono specializzati in una sofisticata ricerca dell’interazione artistica tra media informatici ed elettronici ed altri stru-menti tecnici, alla ricerca della fenomenologia video e della malleabilità dell’immagine, e in generale di un controllo del rapporto arte-tecnologia, inventando diversi strumenti, dal sistema MIDI alle machine vision, dagli ibridi autonomi alle tavole interattive, fino al morphing. Attenti a sfruttare la cultura meta-industriale che è uno dei motori dello sviluppo USA, hanno proficuamente investito in ambito estetico la nozione che una frequenza elettromagnetica commutata in diversi modi può originare suoni o immagini oppure mostrare la linea di confine in risultati in cui l’audiovisivo è effettivamente una dimensione unitaria. Dal 1980 vivono e la-vorano a Santa Fe, New Mexico. Nel 2006 l’organizzazione VIVID di Birmingham ha commissionato la pub-blicazione del testo “Vasulka Lab 1969-2005”, con un ampio corredo di illustrazioni.

“Noisefields” Il violento flickering porta un disco bianco su fondo nero o il contrario a pulsare frene-ticamente passando attraverso diverse trasformazioni optical anche cromatiche in un rapporto figura-sfondo “inquinato” da texture di disturbo elettronico, accompagnate da analoghe alterazioni sonore: fruscii, crepitii, sibili e scoppiettii, sempre a ritmo elevatissimo. Il disco centrale sembra a tratti porsi come un globulo rosso o una pupilla sospesa tra esplosione ed implosione, un super-occhio o cine-pugno ejzensteiniano minimale con tutta la forza virale di un archetipo geometrico elettronicamente generato, puro segnale sul punto di farsi rigettare nel nostro mondo da un cyber-altrove brulicante di impulsi, ovvero da un mondo di disturbi antago-nisticamente opposto alla sfera delle “significanti” immagini dei media più allineati. “Il nostro lavoro è un dialogo tra l’utensile e l’immagine. Invece di rappresentarci un’immagine in uno spazio astratto per farne in seguito un modello cosciente e tentare di realizzarla, noi fabbrichiamo o adattiamo un utensile con il quale dialoghiamo”. In questo caso si assiste ad un bombardamento dell’occhio da parte di un altro occhio, una guerra dei mondi che rende drammaticamente esplicita, oltre alla forza formalista dell’audiovisivo speri-mentale, e del suo esoterismo tecnologico, forse anche il ruolo di schermo vivente che il nostro cervello, per tramite della retina, è chiamato a rivestire, bersaglio di messaggi-proiettile in genere subdolamente masche-rati da messaggi comunicativi più “piani”, ma in realtà, in barba alla tanto sbandierata interattività, pur sem-pre flussi unidirezionali passivizzanti.

il7 – Marco Settembre

va-sulka

 

 

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MAYA DEREN | At land | 1944 | 14′ 53″

Redazione videoPILLS | 04/07/2013

de il7 – Marco Settembre 

PARTE I

PARTE II

Maya Deren (Kiev, 1917 – New York, 1961) alias Eleanora Derenkovskaja, russa di origine ebraica nata poco prima della Rivoluzione d’Ottobre, emigrò con la famiglia negli Stati Uniti. Era stata battezzata col nome di Eleanora in onore della “divina” Duse, ma dopo l’anglicizzazione del cognome in Deren l’artista cambiò anche il nome in Maya, per riflettere il rapporto illusionistico indagato da Shopenhauer tra realtà e rappresentazione, ma anche alludere all’omonima dea indiana e alla madre del Buddha. Questo accadde dopo gli studi di scienze politiche, la laurea in Letteratura inglese e poesia simbolista, l’infatuazione per la danza con il relativo tour con la Katherine Dunham Dance Company, e l’inconro con il filmaker cecoslovacco Alexander Hammid a Los Angeles, con cui produsse il capolavoro Meshes of the afternoon. Il senso di sradicamento tipico degli immigrati, la ben assimilata “lezione” surreal-simbolista di Bunuel e Cocteau, i significati psicanalitici dovuti anche all’influenza del padre psichiatra, e la successiva fascinazione per lil Buddhismo e l’antropologia confluirono in un profilo di artista proto-femminista che realizzò “psicodrammi poetici” in cui lei stessa spesso è protagonista, ma in cui l’identità, la logica spazio-temporale, le convenzioni borghesi, le culture esotiche, grazie ad un montaggio tanto onirico quanto rit-mico, sottoponevano a uno spaesamento trascendente le convenzioni del realismo hollywoodiano. Collaborò con la scrittrice Anaïs Nin e l’artista Marcel Duchamp, e conobbe anche il compositore John Cage e l’antropologo Gregory Bateson. Nel 1986 è stato istituito il Maya Deren Award come incentivo e riconoscimento per il lavoro di filmakers contemporanei.

“At land” è il suo secondo film, realizzato nel 1944, sempre in 16mm. L’uso delle immagini è poetico, rifiuta una narrativa univoca e razionale; libera piuttosto le capacità simboliche e associative, crea suggestioni col flusso di energia creativa. Spazi anacronistici ed eterogenei sono collegati, nell’abile montaggio, dall’azione della protagonista, portata su una spiaggia da onde che – compiuta tale missione – sembrano ritirarsi. La ricerca meta-dimensionale della inquieta donna sembra essere un viaggio extracorporeo, che tuttavia non esclude la fisicità dell’arrampicata sul tronco di legno, la quale sfocia magicamente sul lungo tavolo su cui si svolge una cena, e su cui di nuovo faticosamente la Deren avanza strisciando tra l’indifferenza dei com-mensali, simbolo delle formali miopie borghesi. La partita a scacchi è una chiara citazione di Man Ray, ma la ricerca del pedone ruzzolato sul tronco, e poi tra le rocce in cui scorre il fiume fino alle cascate è il portato, pur espresso con grazia femminile, di un’ansia e di una instabilità legate al latente statuto ontologico delle cose, ma forse anche alla lotta solitaria che ogni artista compie nel cercare di dar corpo e senso alla propria visione. Al culmine di un percorso erratico, la Deren con astuzia recupera il pedone e si allontana lungo la spiaggia da cui era partita, lasciandosi dietro le altre sè stesse.

 

il7 – Marco Settembre

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HOLLIS FRAMPTON | “(nostalgia)” | 1971 | 36″

Redazione videoPILLS | 24/04/2013

de il7 – Marco Settembre

 Hollis Frampton (Ohio, 1936 – New York, 1984) ebbe il cammino segnato da quando a 9 anni gli fu regalata una fotocamera Kodak Brownie. La sua evoluzione lo portò a diventare un capofila del movimento cine-avanguardistico noto come “New American Cinema” e fiorente negli anni ’60 e ’70. All’università conobbe gli artisti Carl Andre e Frank Stella, ed in seguito, al termine di un lungo viaggio on the road per l’America, conobbe Ezra Pound. A New York inizia le sue serie fotografiche mostrando proprio la vita ed il lavoro dei suoi amici artisti Andre e Stella. Nel ’62 ottiene in prestito una Bolex 16mm e da allora inizia a lavorare (anche) come filmaker. Profondamente interessato allo “specifico” dei singoli media, da quelli tradizionali come la pittura e la scultura, a quelli tecnologicamente mediati come la fotografia ed il film, si spese soprattutto per elaborare e “risolvere” la tensione tra di essi, in particolare sciogliendo il film dal rapporto con l’”illusionismo” della pittura e con la “fisicità” della scultura. Le sue riflessioni sono contenute nel saggio “For a Metahistory of Film. Commonplace Notes and Hypoteses”. Brakhage scrisse di lui: “Sottopone il cinema alla tensione del linguaggio”; e con quest’ultimo lo filtra mostrandone la natura di codice e denunciando anche la labilità del ruolo dell’autore stesso che, al di là del proprio rigore, delega in parte allo spettatore le decifrazioni del gioco combinatorio.

“(nostalgia)”, primo dei 7 episodi di cui si compone la serie Hapax Legomena, è un lavoro fortemente auto-biografico e mostra una successione di foto che vengono una dopo l’altra bruciate su un fornello a piastra (in qualche modo “animate”) e illustrate (dalla voce del “collega” Michael Snow) con commenti che variano dal teorico al personale all’aneddotico. Mentre una fotografia brucia si ascolta il commento dedicato alla foto successiva, in un procedimento costruttivista disgiuntivo tra testo/suono e immagine/video che richiede allo spettatore uno sforzo di memoria il quale aggiunge, a questo lavoro che rappresenta un “rito di passaggio” tra fotografia e film nell’evoluzione dell’artista, il rimando al rapporto primario tra linguaggio e immagine e tra passato e anticipazione del futuro.

il7 – Marco Settembre

 

 

 

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STAN BRAKHAGE | Dog Star Man | 1961 | 74”

Redazione videoPILLS | 10/04/2013

de il7 – Marco Settembre

Stan Brakhage (Kansas City, 1933 – Victoria, 2003). A partire dai suoi film dei primi anni ’50 Stan Brakhage è divenuto un nume tutelare della cinematografia sperimentale americana, con all’attivo oltre quattro decadi di prolifica attività, un saggio fondamentale, “Metaphors on vision”, del 1964, ed il postumo “Telling Time: Essays of a Visionary Filmmaker”. L’immaginario di Brackage, nutrito dei film di Jean Cocteau, Ejzenstein e del neorealismo e radicato nell’e-stetica romantica, è dispiegato in un processo artistico che include immagini ondeggianti, riprese ravvicinate, dissolvenze incrociate, lenti distorcenti, ma anche graffi e interventi pittorici direttamente sulla pellicola, ed assume una valenza visionaria ed epica creando metafore ricche di senso.
“Dog Star Man” (incluso nel 1992 nel National Film Registry) è una pietra miliare nella storia del film d’avanguardia perché evoca temi al contempo mitico-archetipici e cosmici, caricati di risonanze mistico-spiri-tuali dovute all’interesse per le filosofie orientali tipico degli anni della Controcultura giovanile in cui fu realizzato, ma anche alla coeva psichedelìa nonché all’uso di allucinogeni, allora concepiti come mezzo psicotro-po per l’allargamento delle “porte della percezione” (espressione di William Blake, ripresa da Aldous Huxley). L’artista, in sequenze astratte e in assenza di commento sonoro, richiama cosmologicamente la creazione del mondo e la formazione delle galassie attraverso immagini di eruzioni solari, ma anche – passando dal macrocosmo al microcosmo – dimensioni più intime, che ricoprono di una dimensione percettiva ultraterrena anche le scene ed i dettagli di ambienti naturali e domestici (in quel periodo era tornato in Colorado, a vivere tra le montagne) compresi gli affetti – il cane, la moglie, il bambino – che risultano anch’essi presi nel clima simbolico che permea l’opera. Questa si pone come un autentico poemetto visivo, articolato in un Prologo e quattro Parti, in cui le speri-mentazioni, tutte manuali o apportate tramite la modifica delle lenti, concorrono a comporre una potente suggestione comparabile con quella che deriva dalla poesia di William Blake. Dog Star Man evoca in effetti un percorso iniziatico dell’Uomo (si coglie lo stesso artista durante una dura arrampicata in una foresta innevata) con testimoni il cosmo ed i quattro elementi, mostrando, nelle diverse fasi, l’Azione, la Rigenerazione, l’Amore e la Fertilità, ed infine la Morte come lente attraverso cui esperiamo la limitatezza della Vita.

 

 

 

 

 

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JONAS MEKAS | The song of central park | 1966 | 4’24”

Daniela Voso | 20/03/2012

Jonas Mekas (Lituania, 1922), poeta e film-maker, vive a New York dove si è trasferito nel 1949 con il fratello. Protagonista dell’avanguardia newyorchese del Greenwich Village, si è distinto in Europa e in America, prendendo parte a festival del film e manifestazioni artistiche.

In bilico tra arte e cinema, i suoi video documentano protagonisti e momenti salienti della scena newyorchese – da Andy Warhol a George Maciunas, dalla prima esibizione dei Velvet Underground a Bed-in for Peace di Yoko-Ono e John Lennon, da Salvador Dalì ad Allen Ginsberg – integrando l’approccio poetico al documentario, in un affiancarsi di immagini, privo di una struttura narrativa convenzionale.

Girato il 16 gennaio 1966 , The song of Central Park è un breve video, che ritrae New York nel vivere quotidiano delle persone, dalla corsa nel parco alla pattinata sul ghiaccio, per poi chiudersi sulla città. In sottofondo la voce di Mekas espone la sua idea di cinema, scandita dal suono dei tasti di una macchina da scrivere: “That’s what cinema is…single frames, frames.”

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CHRIS MARKER | La Jetée |1962 | 28′

Daniela Voso | 20/02/2012


Christian François Bouche-Villeneuve (Neuilly-sur-Seine, 29 luglio 1921) è meglio noto come Chris Marker. Regista, sceneggiatore, montatore, direttore della fotografia, produttore cinematografico e fotografo francese. Vicino al movimento della Nouvelle Vague francese, per le tematiche, lo stile e il carattere di rottura con il passato delle sue opere, Marker esordì negli anni cinquanta.
La Jetée è il cortometraggio del 1962, che gli diede fama internazionale, tappa importante della narrazione audiovisiva. I tratti salienti dell’opera risiedono nella trama fantascientifica e nella tecnica. Una successione di immagini fotografiche fisse (diaporama) sono accompagnate da una voce fuori campo. L’ambientazione post-atomica (il 1962 è l’anno della Crisi dei missili a Cuba) in un ambiente sotterraneo, si alterna alle visioni di un passato ameno. Nei sotterranei: scienziati conducono ricerche sul viaggio nel tempo e sulla mente dei prigionieri e la successione lineare del tempo viene scardinata dalla stessa narrazione filmica, ed é scandita dalla ricorrente immagine di una donna misteriosa e dei ricordi di un uomo, punto d’incontro tra passato e presente. La trama si apre e si conclude nel medesimo istante spazio-temporale: il molo di partenza dell’aeroporto di Orly a Parigi. Da qui il titolo: La Jetée. L’uso della fotografia al posto dell’immagine in movimento, si allinea con la percezione comune dei ricordi. Nel film ‘L’esercito delle dodici scimmie’ (1995) Terry Gilliam si è ispirato a La Jetée.

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LUIS BUNUEL – SALVADOR DALI’ | Un Chien Andalou | 1929 | 16’

Daniela Voso | 16/01/2012

Luis Buñuel (1900 – 1983) e Salvador Dalì (1904 – 1989) furono artisti surrealisti, regista il primo e pittore il secondo, realizzarono insieme i film Un chien Andalou (1928) e l’Age d’or (1930).

“E se da due sogni ne ricavassimo un film?” Buñuel riassunse in questa frase l’intuizione di Salvador Dalì di realizzare un film surrealista, romanzando la genesi di Un Chien Andalou nella sua autobiografia Mon dernier soupir, dove attribuì a sé stesso l’idea del taglio sull’occhio e all’amico quella delle formiche sulla mano. In verità la nascita e l’attribuzione dei meriti in entrambe le collaborazioni tra i due surrealisti spagnoli sono ambigue e non sempre corrispondono nei racconti degli stessi artisti, nelle lettere e nei documenti.

Un Chien Andalou (datato da alcuni al 1928) è considerato uno dei film di più emblematici del movimento Surrealista, caratterizzato da un montaggio non convenzionale e da una sceneggiatura illogica e irrazionale. Buñuel e Dalì usarono liberamente la grammatica cinematografica sconvolgendo le aspettative e creando associazioni inconsuete, come in un procedimento di scrittura automatica o in un sogno. Nel linguaggio, nei contenuti e nella simbologia di Un Chien Andalou c’è l’attacco ad una cultura borghese, ma nonostante alcune proteste l’uscita del film fu un successo.

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JOSEPH BEUYS | Filz TV | 1970 | 10’

Daniela Voso | 21/10/2011

Joseph Beuys (Krefeld, 1921 – Düsseldorf ,1986) si afferma nei primi anni Sessanta ed è tra gli artisti più significativi del xx sec. Personaggio atipico, fu vicino al movimento Fluxus, ma la sua ricerca non si può inquadrare all’interno di nessuna corrente definita.

Performances, installazioni e progetti a lungo termine diedero forma ad un’ampia vicenda artistica, somma della sua biografia, dell’influenza delle teorie steineriane per l’approccio demiurgico, e del movimento Fluxus per il linguaggio e la radicalità. Beuys si affermò nei primi anni sessanta e utilizzò un vero e proprio lessico costruito su elementi ricorrenti, tra cui il feltro e la cera, a cui attribuì valenze curative, metaforicamente traslate sul piano sociale a fronte di una cultura e di un sistema in crisi. Fine dell’arte non era lo shock, ma il cambiamento nelle coscienze. Tematiche ricorrenti: solidarietà sociale e ambientale, relazioni politiche e crisi della cultura europea.

Filz TV è un video del 1970, realizzato per “Identification” la mostra collettiva dedicata alla registrazione video di “azioni” artistiche e organizzata dalla Fernseh Galerie di Gery Schum a Düsseldorf. Il video è diviso in due momenti. Nel primo l’artista cerca un dialogo con una televisione che ha lo schermo coperto da feltro (filz), prima prendendosi a pugni e poi provando a nutrire l’elettrodomestico con una salsiccia. Invano. Nel secondo momento la televisione resta sola al centro dell’immagine, mentre in sottofondo continuano a sentirsi le musiche e le voci delle trasmissioni.

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Paolo Gioli | Commutazioni con mutazione | 1969 | 7′

Daniela Voso | 23/09/2011

Paolo Gioli (Sarzano di Rovigo, 1942) è videomaker e fotografo. Trascorre parte della sua formazione a New York, alla fine degli anni sessanta. Successivamente lavora tra Roma e Rovigo fino al 1976 quando si trasferisce a Milano, dedicandosi soprattutto alla fotografia.

Particolarmente prolifico fino al ’74, Gioli è vicino agli ambienti del cinema sperimentale e indipendente romano. Difficile dire se sia un videomaker prestato all’arte e alla fotografia o viceversa. Spesso privi di narrazione i suoi lavori sono un collage di immagini, che si ripetono sullo schermo, scandendo il movimento o sdoppiandosi. Dagli anni ottanta Gioli ha esposto sia come artista video, che come fotografo in Europa e negli Stati Uniti. Tra le tante occasioni si ricorda la sua partecipazione a “Linee della ricerca artistica in Italia” (Roma, 1981) e alla Biennale di Venezia nel 1995.

Commutazioni con mutazione è il suo primo film ed è il risultato della sovrapposizione di tre pellicole – super 8, 16 mm e 35 mm – su un unico supporto. Un collage, ritmato dal suono di una pellicola che gira. Il gioco di parole fa eco alle immagini che si susseguono per affinità visiva e senza logica apparente: il volto di un’attrice americana, un paesaggio agricolo, il simbolo della Repubblica Italiana. Qui, Gioli sperimenta le possibilità estetiche della pellicola non solo come strumento, ma come supporto e materia, fino a metterla in primo piano, creando quello che in gergo si definisce metalinguaggio.

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Chris Marker – Sans soleil – 1982

Fabrizio Pizzuto | 02/12/2010

Sans soleil è un documentario con un commentario filosofico in cui sono presenti anche parti di fiction. Mescolando vari metodi di ripresa si crea un’atmosfera onirica quasi di racconto surreale, paradossalmente misto a informazione scientifica. I temi principali sono il Giappone, la memoria e il viaggio. Chris Marker vive tuttora Parigi ma non concede interviste coltivando così il mistero che circonda il suo personaggio.

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